242 |
storia della decadenza |
|
troppo avverato quell’antico proverbio, che l’uomo il quale dall’esilio passa all’autorità, è avido di sangue. Andronico lo avverò per la terza volta. Esiliato dalla patria, rammentavasi egli di tutti quelli de’ suoi nimici e rivali che avean parlato male di lui, gioito delle sue miserie, o ch’eransi opposti alla sua fortuna; unica sua consolazione era allora la speranza della vendetta. La necessità, a cui si condusse, di condannare il giovane Imperatore e la madre di lui, lo trasse all’obbligo funesto di liberarsi de’ loro amici, che odiar doveano l’assassino, e lo poteano punire; l’abitudine dell’omicidio gli tolse la volontà, o il potere di perdonare. L’orribile descrizione del numero delle vittime, ch’egli immolò col veleno o col ferro, che fece gettare in mare, o tra le fiamme, darebbe un’idea della sua crudeltà che farebbe più impressione che il titolo de’ giorni dell’Alcione (giorni tranquilli) applicato all’intervallo, assai raro nel suo regno, d’una settimana in cui cessò dal versar il sangue dei popoli. Cercò di scolpare colle leggi e pe’ Giudici una parte de’ suoi delitti; ma avea lasciata cadere la maschera, e non poteano più i sudditi ingannarsi circa l’autore delle loro calamità. I più nobili de’ Greci, e quelli precipuamente che per loro nascita od alleanza poteano aspirare alla succession de’ Comneni, si salvarono dall’antro del mostro: si ricovrarono a Nicea od a Prusa, in Sicilia o nell’isola di Cipro; e la loro fuga passando già per rea, aggravarono il delitto coll’inalberare il vessillo della rivoluzione, e coll’assumersi il titolo d’Imperatori. Con tutto ciò sfuggì Andronico al pugnale e alla spada de’ suoi più tremendi nemici; sottomise e gastigò le città di Nicea e di Prusa; bastò il sacco