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dell'impero romano cap xlviii. 237

nei possedimenti del Sultano di Colonia; gli provò la sua gratitudine con frequenti scorrerie nella provincia romana di Trebisonda; ritornava sempre con una preda ragguardevole di spoglie, e con molti prigionieri cristiani. Amava, nel racconto delle sue avventure, paragonarsi a Davidde, che seppe mercè d’un lungo esilio evitare le insidie dei maligni; ma il Re profeta, osava egli aggiungere, altro non fece che vagare sulla frontiera della Giudea, uccidere un Amalecita, e minacciare nella sua misera situazione i giorni dell’avido Nabal. Le scorrerie d’Andronico s’estesero più oltre; aveva egli diffuso in tutto l’Oriente la gloria del suo nome e della sua religione. Un decreto della Chiesa greca, in pena della sua vita errante o della sua condotta licenziosa, l’avea separato dalla Comunion de’ fedeli; prova questa stessa scomunica, ch’egli non abiurò mai il cristianesimo. Avea deluso o respinto ogni tentativo, fosse palese o nascosto, fatto dall’Imperatore per impadronirsi di lui. La prigionia dell’amante il trasse finalmente nel laccio. Riuscì al governatore di Trebisonda di sorprendere e rapire Teodora; la Regina di Gerusalemme, e i suoi due figli, furono spediti a Gerusalemme, e d’indi in poi trovò Andronico la sua vita errante assai penosa. Implorò perdono e l’ottenne; di più gli si permise di gettarsi ai piedi del suo sovrano, che appagossi della sommissione di quell’animo altero. Colla faccia a terra, deplorò le sue ribellioni con lagrime e gemiti; dichiarò che non si alzerebbe, finchè un suddito fedele venisse a prenderlo per la catena, ch’erasi secretamente attaccato al collo, e a trascinarlo sui gradini del soglio. Destò un segno così straordinario di pentimento lo stupore