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dell'impero romano cap xlviii. 201

parlar devoto, l’intenzione che palesava di ritirarsi dal Mondo, servivano di maschera ad una profonda e pericolosa ambizione. Seppe per altro illudere un santo Patriarca, per interposizione del quale ottenne dal senato un decreto, che gli dava durante la minorità dei giovani principi l’assoluto comando degli eserciti dell’Oriente. Non così tosto ebbe in pugno la fede dei Capi e dei soldati, marciò arditamente a Costantinopoli; schiacciò i suoi nemici; pubblicò la sua intelligenza coll’Imperatrice, e senza degradare i figli di Teofane, prese col titolo d’Augusto la preminenza della dignità, e la pienezza del potere; ma il Patriarca, che l’aveva portato al soglio, non gli permise di sposare Teofane. Per questo secondo matrimonio fu quindi assoggettato ad una pena canonica d’un anno: se gli opponeva un’affinità spirituale, e fu d’uopo ricorrere a sutterfugii ed a spergiuri, per attutire gli scrupoli del clero e del popolo. Perdè l’Imperatore sotto la porpora l’amor della nazione, e in un regno di sei anni si tirò addosso l’odio dei forestieri, non che dei sudditi, i quali riscontrarono, in lui l’ipocrisia e l’avarizia del primo Niceforo. Io non mi proverò a discolpare od a palliare l’ipocrisia, ma non mi periterò d’osservare, che l’avarizia è quel vizio che più prestamente si crede, e che si condanna con più severità. Se si tratta d’un cittadino, rare volte abbiam cura d’esaminarne la fortuna e le spese: nel depositario della sorte pubblica, l’economia è sempre una virtù, e troppo spesso l’aumentare le imposizioni è un dovere indispensabile. Niceforo, che aveva mostrato il suo animo generoso nell’usare del suo patrimonio, consacrò scrupolosamente le pubbliche entrate a pro dello Stato. Col ritorno d’ogni