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dell'impero romano cap xlviii. |
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colle verghe. Per falli leggieri, per un difetto d’equità o di vigilanza, i suoi principali ministri, un prefetto, un questore, un capitan delle guardie erano cacciati in esilio, mutilati, immersi entro la pece bollente, o abbruciati vivi nell’Ippodromo. Naturalmente queste terribili condanne, dettate forse dall’errore e dal capriccio alienarono da lui l’affetto dei migliori e de’ più saggi cittadini; ma l’orgoglioso monarca si compiaceva di questi atti di potere, ch’egli considerava come atti di virtù; tranquillo nella sua oscurità facea plauso il popolo al pericolo ed alla umiliazione dei Grandi. A dir vero, tanto rigore fu in qualche parte giustificato da conseguenze salutari, avvegnachè dopo esatte ricerche per diciassette giorni non si trovò nè nella capitale, nè in Corte un sol motivo di doglianza, nè abuso da denunziare; si dee fors’anche concedere, che fosse mestieri reggere i Greci con uno scettro di ferro, e che il ben pubblico è il movente e la legge del magistrato supremo. Nel giudicare del delitto di lesa maestà questo giudice è credulo o parziale più d’un altro. Condannò Teofilo a tarda pena gli assassini di Leone, e i liberatori di suo padre, continuando egli a godere il frutto del lor delitto; e la gelosa sua tirannia immolò alla propria sua sicurezza il marito di sua sorella. Un Persiano della razza de’ Sassanidi era morto a Costantinopoli nell’esilio, e nella povertà, lasciando un figlio unico del suo matrimonio con una plebea. Questo fanciullo, di nome Teofobo, era nell’età di dodici anni, quando venne in cognizione del secreto della sua nascita, e non era già indegno il suo merito di tal origine. Fu educato nel palazzo di Bizanzio da cristiano e da soldato, fece rapidi passi nella