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dell'impero romano cap. xxiv. | 385 |
Ma l’Imperatore, per quanto stretti fossero i limiti della sua costitutiva autorità, era padrone assoluto delle leggi e delle armi dello Stato; e gli stessi motivi, che l’avevan forzato a sottoscrivere il trattato di pace, lo affrettavano ad eseguirlo. Egli era impaziente d’assicurarsi un Impero a costo di poche Province; ed i nomi rispettabili di religione d’onore coprivano i timori personali e l’ambizion di Gioviano. Non ostanti le umili sollecitazioni degli abitanti, il decoro ugualmente che la prudenza impediron l’Imperatore dal prendere alloggio nel palazzo di Nisibi; ma la mattina dopo il suo arrivo, Binese, Ambasciatore di Persia, entrò nella piazza, spiegò dalla fortezza la bandiera del gran Re, e pubblicò in nome di esso la crudele alternativa della servitù o dell’esilio. I principali cittadini di Nisibi, che fino a quel fatal momento avevan confidato nella protezione del loro Sovrano, gli si gettarono a’ piedi. Lo scongiurarono a non abbandonare o almeno a non consegnare una fedele colonia al furore d’un Barbaro tiranno, esacerbato da tre successive sconfitte ricevute sotto le mura di Nisibi. Essi avevano ancora armi e coraggio per rispingere gl’invasori della patria; chiedevano soltanto la permissione di servirsene in loro difesa; e tosto che avessero assicurata la propria indipendenza, avrebbero implorato il favore di essere nuovamente ammessi nel numero de’ suoi sudditi. Gli argomenti, la eloquenza e le lacrime loro furono inefficaci. Giovia-
quantunque rigoroso casista, decise che Gioviano non era obbligato ad eseguire la sua promessa; poichè non poteva smembrare l’Impero, o alienare l’omaggio del suo popolo senza il consenso di esso. Io non ho mai trovato gran diletto o istruzione in tali politici Metafisici.