|
dell'impero romano cap. xxiv. |
345 |
avarizia dell’esercito, il quale altamente lagnavasi che fosser premiati i suoi servigi con un piccol donativo di cento monete d’argento. S’espresse il giusto suo sdegno nel grave e virile linguaggio d’un Romano. „L’oggetto di vostre brame son le ricchezze? Si trovan queste nelle mani dei Persiani, e le spoglie di questo fertil paese sono il premio del vostro valore e disciplina. Crediatemi (continuò Giuliano) che la Repubblica Romana, la quale prima possedeva tanti immensi tesori, è presentemente ridotta al bisogno ed alla miseria, da che i nostri Principi si son lasciati persuadere da deboli ed interessati Ministri a comprare coll’oro la pace dei Barbari. Esausto è l’erario, le città rovinate, spopolate le Province. Quanto a me, l’unica eredità, che ho ricevuto dai miei reali antenati, è un animo incapace di timore; e finattanto che io sarò convinto, che ogni real vantaggio consiste nello spirito, non mi vergognerò di confessare un’onorevole povertà, che nei tempi dell’antica virtù era considerata come la gloria di Fabricio. Vostra può esser tal gloria e tal virtù, se presterete orecchio alla voce del Cielo e del vostro Generale. Ma se temerariamente volete persistere, se siete risoluti di rinnovare i vergognosi e colpevoli esempi delle antiche sedizioni, proseguite pure.... Come conviene ad un Imperatore, che ha tenuto il primo grado fra gli uomini, io son pronto a morire da forte, ed a sprezzare una vita precaria, che può ad ogni momento dipendere da un’accidental malattia. Se mi trovate indegno del comando, vi sono adesso fra voi (io lo dico con ambizione e con piacere) vi sono molti Capi, il merito e l’esperienza dei quali è capace di