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dell'impero romano cap. xxiii 293

ni trascurò quel modesto contegno, che avrebbe potuto quietare la gelosia d’un governo nemico. L’alto carro che trasportava le reliquie di Babila, fu seguito, accompagnato e ricevuto da un’innumerabile moltitudine, che cantava con strepitose acclamazioni i salmi di David, i più espressivi del suo disprezzo per gl’idoli e per gl’idolatri. Il ritorno del Santo fu un trionfo, ed il trionfo un insulto alla religion dell’Imperatore, che fece pompa della sua vanità per dissimulare lo sdegno. Nella notte medesima, in cui terminò questa processione, il tempio di Dafne andò in fiamme; la statua d’Apollo fu consumata; e le mura dell’edifizio restarono un nudo ed orrido monumento di rovina. I Cristiani d’Antiochia asserivano, con religiosa sicurezza, che la potente intercessione di S. Babila avea diretto i fulmini del cielo contro quel dannato tetto; ma trovandosi Giuliano ridotto all’alternativa di credere o un delitto o un miracolo, volle piuttosto senza esitare, senza prove, ma con qualche apparenza di probabilità, imputare l’incendio di Dafne alla vendetta de’ Galilei1. Se si fosse sufficientemente provato il loro delitto, questo avrebbe potuto giustificar la vendetta, che fu immediatamente eseguita per ordine di Giuliano, di chiuder le porte, e di confiscare i beni della Cattedrale d’Antiochia. Per iscoprire i rei del tumulto e dell’incendio, e dell’occultazione delle ricchezze della Chiesa, furon tormentati varj Ecclesiastici2; e fu decapitato un prete, chia-

  1. Giuliano, in Misopogon p. 361, insinua, piuttosto che affermi il loro delitto. Ammiano (XXII. 13), tratta quest’imputazione come levissimus rumor, e riferisce l’istoria con estremo candore.
  2. Quo tam atroci casu repente consumpto, ad id usque