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dell'impero romano cap. xxiii | 267 |
l’Oriente, ch’erano stati tratti allo stendardo della croce e di Costanzo, richiesero una più sottile e dispendiosa specie di persuasione. L’Imperatore, ne’ giorni di pubbliche e solenni feste, riceveva l’omaggio, e premiava il merito delle truppe. Il suo trono era circondato dall’insegne militari di Roma e della Repubblica; il santo nome di Cristo era cancellato dal Labaro; ed eran così destramente mescolati i simboli di guerra, di Maestà e di Pagana superstizione, che il suddito fedele incorreva il delitto d’idolatria, quando rispettosamente salutava la persona o l’immagine del suo Sovrano. I soldati passavano, l’un dopo l’altro, avanti di lui; ed a ciascheduno di essi, prima che dalla man di Giuliano ricevesse un liberal donativo proporzionato al suo grado ed a’ suoi servigi, imponevasi di gettar pochi grani d’incenso nella fiamma che ardeva sopra l’altare. Alcuni confessori Cristiani poteron resistere, ed altri pentirsi di tal atto; ma la massima parte, allettata dalla vista dell’oro, ed intimorita dalla presenza dell’Imperatore, contrasse il colpevole impegno; ed ogni considerazione di dovere e d’interesse li confortava a perseverare in futuro nel culto degli Dei. Con la frequente ripetizione di tali artifizj, ed a spese di somme che sarebber servite a comprare i servigi della metà delle nazioni della Scizia, Giuliano appoco appoco acquistò l’immaginaria protezion degli Dei per le sue truppe, e per sè lo stabile e reale sostegno delle Romane Legioni1. In
- ↑ Gregor. (Orat. III p. 74. 75. 83. 86) e Libanio (Orat. parent. c. 81, 82, p. 307, 308) περι ταυτην την σπουδην ουκ
sdegnato Istorico descrivono la medesima scena; e nell’Illirico non meno che in Antiochia simili cause debbono avere prodotto simili effetti.