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dell'impero romano cap. xxi |
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reva che stabilisse tre indipendenti Divinità, tentavano di conservar l’unità della prima causa così patente nel disegno e nell’ordine del Mondo, mediante la perpetua concordia di loro amministrazione e l’essenziale conformità del loro volere. Si può vedere (dicevano essi) una debole somiglianza di tale unità d’azione nelle società degli uomini, ed anche degli animali. Le cause, che disturbano la loro armonia, non provengono che dall’imperfezione e disuguaglianza delle lor facoltà; ma l’onnipotenza, ch’è guidata da infinito sapere e bontà, non può mancare di scegliere gli stessi mezzi per l’adempimento de’ medesimi fini. In terzo luogo tre Enti, che per propria original necessità di loro esistenza posseggono tutti i divini attributi nel grado più perfetto; che sono cterni nella durata, infiniti nello spazio, ed intimamente presenti l’uno all’altro ed a tutto l’universo; irresistibilmente forzano l’attonita mente a crederli uno stesso Ente1, che nell’economia della grazia ugualmente che in quella della natura si possa manifestare sotto differenti forme, ed esser considerato in differenti aspetti. Con questa ipotesi una vera sostanzial Trinità si riduce ad una Trinità di nomi e di astratte modificazioni, che sussistono soltanto nella mente che le concepisce. Il Logos non è più una persona, ma un attributo, e non può applicarsi più che in un senso figurato l’epiteto di Figlio all’eterna ragione, che era un Dio fin dal principio, e da cui, non per mezzo di
- ↑ Boezio, ch’era profondamente versato nella filosofia di Platone e d’Aristotile, spiega l’unità della Trinità mediante l’indifferenza delle tre persone. Vedi le giudiziose osservazioni del Le Clerc, Biblioth. Chois. Tom. XVI. p. 225.