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dell'impero romano cap. xviii. | 369 |
moltitudine. La sincerità dell’istoria dichiara1, che i Romani furono vinti con una terribile strage, e che le fuggitive reliquie delle legioni restarono esposte ai più intollerabili travagli. Quantunque la dissimulazione del panegirico, confessando che fu macchiata la gloria dell’Imperatore dalla disubbidienza de’ soldati, procuri di tirare un velo sulle circostante di questa infelice ritirata, uno per altro di que’ venali oratori, così gelosi della fama di Costanzo, riporta con sorprendente freddezza un atto di tanta incredibile crudeltà, che nell’opinione de’ posteri deve imprimere la più brutta macchia all’onore del nome Imperiale. Era stato preso nel campo Persiano il figlio di Sapore, erede della corona. Questo sventurato giovane, che avrebbe risvegliato la compassione del più selvaggio nemico, fu battuto, torturato e pubblicamente messo a morte da’ crudeli Romani2.
[A. D. 338 346 350] Per quanti vantaggi potessero incontrare le armi di Sapore in campo, e quantunque nuove ripetute vittorie spargessero fra le nazioni la fama del suo valore e della sua condotta, pure non poteva egli sperar di riuscire nell’esecuzione de’ suoi disegni, finchè le fortificate piazze della Mesopotamia, e sopra tutto la forte ed antica città di Nisibi restavano in possesso de’ Romani. Nello spazio di dodici anni, Nisibi, che fin dal tempo di Lucullo era meritamente stimata il baloardo dell’Oriente, sostenne tre memorabili assedj contro la potenza di Sapore, e non avendo il Monarca ottenuto