Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
dell'impero romano cap. xv. | 337 |
un’ostinata inflessibilità di carattere1 riceveva la nuova dottrina con ripugnanza e freddezza; ed anche al tempo d’Origene, gli era ben raro d’incontrare un Egiziano, che avesse vinto gli antichi suoi pregiudizi a favore degli animali sacri del suo Paese2. Ma tosto che la religione Cristiana occupò il trono, lo zelo di que’ Barbari obbedì alla forza che prevalse; le città dell’Egitto si riempirono di Vescovi e i deserti della Tebaide si popolarono d’Eremiti.
Un fiume perpetuo di stranieri e di provinciali scorreva nell’ampio seno di Roma. Tutto ciò ch’era odioso o stravagante, chiunque fosse colpevole o sospetto, nell’oscurità di quell’immensa Capitale sperar poteva d’eludere la vigilanza delle leggi. In un miscuglio di sì diverse nazioni ogni predicatore o di verità, o di falsità, ogni fondatore di qualunque o virtuosa o viziosa assemblea, poteva facilmente moltiplicare i propri discepoli o complici. I Cristiani di Roma, nel tempo dell’accidentale persecuzion di Nerone, si rappresentano da Tacito come ascendenti già ad una moltitudine assai numerosa3, ed il linguaggio di quel grande Istorico è quasi simile allo stile che adopera Livio, quando riferisce l’introduzione e la soppressione de’ riti di Bacco. Dopo che i Baccanali ebbero eccitata la severità del Senato, temevasi ancora che una grandissima moltitudine, quasi fosse un altro Popolo,