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dell'impero romano cap. xv. | 317 |
I. La comunione de’ beni, che aveva tanto piacevolmente occupato l’immaginativa di Platone1, e che sussisteva in qualche modo nell’austera setta degli Essenj2, fu per breve tempo adottata nella primitiva Chiesa. Il fervore de’ primi proseliti gl’indusse a vendere quelle mondane possessioni, che disprezzavano, a portarne il prezzo a’ piedi degli Apostoli, ed a contentarsi di riceverne una parte uguale agli altri nella generale distribuzione3. L’accrescimento de’ Cristiani fece che si rilassasse, ed a grado a grado restasse abolito questo generoso instituto, che in mani meno pure di quelle degli Apostoli si sarebbe troppo presto corrotto, e convertito in abuso dal proprio interesse, a cui la natura umana è sempre condotta; e fu permesso a’ convertiti, che abbracciavan la nuova religione, di ritenere il possesso del lor patrimonio, di ricever legati ed eredità, e di accrescere ciascheduno i propri averi per tutti i mezzi legittimi del commercio e dell’industria. Invece di un intero sagrifizio de’ beni di ognuno, da’ ministri dell’Evangelio ne fu accettata una moderata porzione, e nelle loro eddomadali, o mensuali adunanze ogni fedele, secondo che esigeva l’occasione, ed a misura della propria ricchezza e pietà, presentava la sua volontaria offerta per uso della
- ↑ La comunione instituita da Platone è più perfetta di quella, che aveva immaginato per la sua Utopia il cav. Tommaso Moro. La comunione delle donne, e quella de’ beni temporali, possono considerarsi come parti inseparabili dell’istesso sistema.
- ↑ Joseph Antiquit. XVIII. 2. Philo de vit. contemplativ.
- ↑ Vedi gli Atti degli Apostoli c. 2. 4. 5. co’ comentari di Grozio. Mosemio, in una Dissertazione particolare, attacca la comune opinione con molto inconcludenti argomenti.