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dell'impero romano cap. xv. | 297 |
provazione di que’ mondani filosofi, che nella condotta di questa vita passeggera consultano i sentimenti della natura e l’interesse della società1.
Vi sono due propensioni naturali, che noi possiam ravvisare nelle più virtuose ed ingenue indoli, l’amor del piacere e quello di agire. Se il primo sia coltivato dalle arti e dalle scienze, promosso da’ vincoli del commercio sociale, e corretto da un giusto riguardo all’economia, alla salute, ed alla riputazione, produce la maggior parte della felicità di una vita privata. L’amore poi dell’azione è un principio di un carattere più forte o più dubbioso: conduce spesse volte alla collera, all’ambizione, ed alla vendetta; ma qualora sia guidato da un sentimento di decenza e di bontà, divien la sorgente di ogni virtù; e se queste virtù sono accompagnate da egual capacità, può anche una famiglia, uno Stato, o un Impero riconoscer la sua prosperità e sicurezza dal coraggio intrepido di un solo uomo. All’amor del piacere dunque imputar si possono le più dilettevoli, ed a quel dell’azione le più utili e stabili qualità umane. Quell’individuo, nel quale si trovasse unito con bell’armonia l’uno all’altro, ci darebbe per avventura la più perfetta idea della natura dell’uomo. Un’indole inattiva, ed insensibile, che si supponesse del tutto priva di ambidue gli amori, si rigetterebbe d’unanime accordo dagli uomini come affatto incapace di procurare all’individuo veruna felicità, o alcun pubblico vantaggio al genere umano. Ma non era questo mondo il luogo, dove i primitivi Cristiani bramavano di rendersi o piacevoli, o vantaggiosi.
- ↑ Vedi un molto giudizioso trattato di Barboyrac sur la Morale des Pères.