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dell'impero romano cap. xv. 273

gli antichi filosofi rispetto all’immortalità dell’anima. Quando essi vogliono armare i lor discepoli contro il timor della morte, inculcano loro come un’ovvia e malinconica tesi, che il fatal colpo del nostro discioglimento ci libera dalle calamità della vita, e che più non soffre chi più non esiste. Contuttocciò v’erano alcuni pochi Saggi della Grecia e di Roma, che avevan concepito un’idea più nobile, ed in qualche modo più giusta della natura dell’uomo; quantunque bisogna confessare, che in tal sublime ricerca il lor raziocinio era spesso guidato dall’immaginazione, e questa eccitata dalla lor vanità. Allorchè si compiacevano in osservar l’estensione delle proprie intellettuali potenze, allorchè esercitavano le diverse facoltà della memoria, della fantasia, del giudizio nelle speculazioni le più profonde, o ne’ lavori di maggior importanza, e quando riflettevano al desiderio della fama, che li trasportava ne’ futuri secoli molto al di là de’ confini della morte e del sepolcro, non eran inclinati a confonder se stessi colle bestie del campo, o a supporre che un ente, per la dignità del quale nutrivano la più sincera ammirazione, dovesse limitarsi ad un punto della superficie terrestre o ad una durata di pochi anni. Con questa favorevole prevenzione chiamavano anche in lor soccorso la scienza, o piuttosto il linguaggio de’ metafisici. Essi ben presto scoprirono, che, siccome niuna delle proprietà della materia può applicarsi alle operazioni della mente, l’anima umana per conseguenza debb’essere una sostanza distinta dal corpo, pura, sem-

    più bello stile tutto ciò, che la Greca Filosofia, o il buon senso Romano potea suggerire in quest’oscuro, ed importante soggetto.