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dell'impero romano cap xiii. | 151 |
spettavano i pregiudizi del popolo Romano, erano in qualche modo obbligati a tenere il linguaggio e la condotta conveniente al Generale ed al primo Magistrato della Repubblica. Ne’ campi e nelle Province spiegavano la dignità di Monarchi, e quando essi posero ferma residenza lungi dalla Capitale, abbandonarono per sempre la dissimulazione, da Augusto raccomandata ai suoi successori. Nell’esercizio della potenza legislativa e dell’esecutiva, il Sovrano deliberava coi suoi Ministri, in vece di consultare il gran Consiglio della nazione. Il nome del Senato si rammentò con onore fino all’ultimo periodo dell’Impero. La vanità de’ suoi membri1 era sempre lusingata con onorifiche distinzioni, ma l’assemblea, che per tanto tempo era stata e la sorgente, e l’istrumento della potenza, fu rispettosamente lasciata cadere in obblìo. Il Senato di Roma, perdendo ogni connessione colla Corte Imperiale e coll’attual costituzione, fu lasciato come un venerabile ma inutile monumento di antichità sul colle Capitolino.
Quando i Principi Romani ebber perduto di vista il Senato e l’antica lor Capitale, facilmente obbliarono l’origine e la natura del loro legittimo potere. Le cariche civili di Console, di Proconsole, di Censore e di Tribuno, dall’unione delle quali quel potere era stato formato, ne mostravano al popolo la repubblicana origine. Questi modesti titoli2 furono tralasciati, e se quei Principi tuttavia distinguevano l’alta lor dignità
- ↑ Vedi il Codice Teodos. l. VI. Tit. II. col commentario del Gotofredo.
- ↑ Vedi la XII. Dissertazione nell’eccellente opera dello Spanemio De usu Numismatum. Dalle medaglie, dalle iscrizioni e dagli Storici egli esamina ogni titolo separatamente, e lo rintraccia da Augusto fino alla sua soppressione.