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dell'impero romano cap. vii. | 279 |
guerra civile durò molti giorni, con perdita o confusione infinita d’ambe le parti. Ma rotti i canali, che portavano l’acqua al campo, i Pretoriani furono ridotti ad intollerabili angustie; dal canto loro per altro avventurarono disperatamente varie sortite nella città, incendiarono un gran numero di case, e fecero per le strade correre il sangue degli abitanti. L’Imperatore Balbino tentò con vani editti e tregue precarie di reconciliare le fazioni in Roma. Ma la loro animosità, benchè mitigata per un poco, arse poi con raddoppiata violenza. I soldati, detestando il Senato ed il popolo, disprezzavano la debolezza di un Principe, che non avea nè coraggio, nè forza da farsi ubbidir dai suoi sudditi1.
Dopo la morte del tiranno il suo formidabile esercito avea più per necessità che per elezione riconosciuta l’autorità di Massimo, che si trasportò senza indugio al campo di Aquileia. Appena ebbe egli ricevuto il giuramento di fedeltà, parlò con termini pieni di dolcezza e moderazione; deplorò, anzichè rimproverare, i fieri presenti disordini; ed assicurò i soldati che il Senato obbliava tutta la loro passata condotta, non ricordandosi di altro che della loro generosa diserzione dal tiranno, e del loro volontario ritorno al proprio dovere. Massimo avvalorò queste esortazioni con un generoso donativo, e purificò il campo con solenne sacrifizio espiatorio, rimandando poi nelle loro diverse province lo legioni, penetrate, com’ei sperava, da un vivo sentimento di gratitudine u di ubbidienza2. Ma niente potè rappacificare gli animi orgogliosi