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dell'impero romano cap. vii. 275

L’Imperatore Massimo, che si era avanzato fino a Ravenna per fortificare quella piazza importante, ed affrettare i preparativi militari, vide l’esito della guerra nel fedelissimo specchio della ragione e della politica. Sapea troppo bene, che una sola città non poteva resistere ai continui sforzi di una numerosa armata, e temea che il nemico, stanco per l’ostinata resistenza di Aquileia, lasciando ad un tratto quell’inutile assedio, non marciasse direttamente verso Roma. Conveniva allora commmettere al caso di una battaglia il destino dell’Impero e la causa della libertà: e quali armi poteva egli mai opporre alle veterane legioni del Danubio e del Reno? Poche truppe recentemente levate tra la nobile, ma snervata gioventù dell’Italia, ed un corpo di Germani ausiliarj, sulla fermezza dei quali era pericoloso fidarsi nell’ora del conflitto. In mezzo a questi giusti terrori, il colpo di una congiura domestica punì i delitti di Massimino, e liberò Roma ed il Senato dalle calamità, che avrebbero sicuramente accompagnata la vittoria di un Barbaro furibondo.

Il popolo di Aquileia aveva appena provate alcune delle ordinarie calamità di un assedio; i magazzini erano abbondantemente provvisti, e diverse fontane dentro le mura l’assicuravano d’una inesauribile sorgente di acqua. I soldati di Massimino erano al contrario esposti all’inclemenza della stagione, alle malattie epidemiche, ed agli orrori della fame. Il paese aperto era rovinato; i fiumi pieni di cadaveri e tinti di sangue. Cominciò a diffondersi tra le truppe lo spirito di disperazione e di malevolenza; siccome era loro impedita ogni corrispondenza al di fuori, facilmente credettero che tutto l’Impero avesse abbraccia-