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dell'impero romano cap. vii. 271
a traverso la sediziosa moltitudine. Ma questa, armata di bastoni e di pietre, li rispinse nel Campidoglio. È prudenza il cedere, quando la contesa (qualunque essere ne possa l’esito) dee tornar fatale ad ambe le parti. Un ragazzo di soli tredici anni, pronipote del vecchio Gordiano e nipote del giovane, fu presentato al popolo, vestito degli ornamenti e del titolo di Cesare. Questa facile condiscendenza acchetò il tumulto; e i due Imperatori, pacificamente riconosciuti in Roma, si apparecchiarono a difendere l’Italia contro il comune inimico.

Mentre in Roma e nell’Affrica le rivoluzioni si succedevano con sì maravigliosa rapidità, l’animo di Massimino era agitato dalle più furiose passioni. Dicono che ricevè la nuova della ribellione dei Gordiani e del decreto del Senato contro di lui, non collo sdegno proprio di un uomo, ma con la rabbia di una bestia feroce; e non potendo sfogarla contro il Senato lontano, minacciò la vita del proprio figlio, degli amici, e di chiunque osava accostarsegli. La grata notizia della morte dei Gordiani fu presto seguitata dalla certezza che il Senato, disperando affatto del perdono o di accomodamento, avea creati in lor vece due Imperatori, il cui merito non gli era ignoto. La vendetta era l’unica consolazione rimasta a Massimino, e la vendetta potea solo ottenersi con le armi. Alessandro avea raccolta da tutte le parti dell’Impero la forza delle legioni. Tre campagne felici contro i Sarmati ed i Germani, aveano aumentata la loro riputazione, invigorita la disciplina, ed accresciuto ancora il lor numero, che si era compito col fiore della barbara gioventù. Massimino avea passata la vita alla guerra, e la severa sincerità della storia non