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altri condannati ad essere battuti con le verghe fino alla morte. Nei tre anni del suo regno, non si degnò di visitare nè Roma, nè l’Italia. Il suo campo, trasportato per alcune circostanze dalle rive del Reno a quelle del Danubio, era la sede del suo barbaro dispotismo, che calpestava ogni principio di legge e di giustizia, ed avea per sostegno l’arbitrario poter della spada. Egli non soffriva appresso di se alcun uomo di nobile nascita, di belle doti, o perito negli affari civili; e la Corte di un Imperatore romano risvegliava l’idea di quegli antichi capi di schiavi e di gladiatori, la cui selvaggia potenza avea lasciata una profonda impressione di terrore e di detestazione1.

Finchè la crudeltà di Massimino fu ristretta agli illustri Senatori, o ai temerarj avventurieri, che nella Corte e nell’esercito si esponevano al capriccio della fortuna, il popolo in generale contemplò con indifferenza, e forse con piacere, i loro supplizj. Ma l’avarizia del tiranno, stimolata dall’insaziabile avidità dei soldati, invase finalmente i beni del Pubblico. Ogni città dell’Impero possedeva una rendita indipendente, destinata a provvedere il grano per la moltitudine, ed a supplire alle spese dei giuochi e dei divertimenti. Con un atto solo di autorità l’intera massa

  1. Veniva paragonato a Spartaco, e ad Atenione: Stor. Aug. p. 141. Alcune volte la moglie di Massimino sapeva con i suoi savj e dolci consigli rimettere il tiranno sulla via della verità e dell’umanità. Ved. Am. Marcellino l. XVII. c. 1, dove fa allusione a quella circostanza, ch’egli ha più estesamente riferita sotto il regno di Gallieno. Si può vedere dalle medaglie, che quella benefica Imperatrice si nominava Paulina: il titolo di Diva indica ch’essa morì avanti Massimino. (Valois, ad loc. cit. Amm.) Spanhem. de U. Et P. N. tom. II. p. 300.