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dell'impero romano cap. vi. 217

di Emesa sopra tutte le religioni della terra; e il nome di Elagabalo (giacchè pretese come Pontefice, e favorito di prender quel sacro nome) gli fu più caro, che tutti i titoli della grandezza imperiale. In una solenne processione per le contrade di Roma il suolo era coperto di polvere d’oro, e la pietra nera, adornata di preziose gemme, era posta sopra un carro tirato da sei bianchissimi cavalli, riccamente guarniti. Il devoto Imperatore tenea le redini, e sostenuto dai suoi Ministri, si movea lentamente all’indietro, per avere la sorte di goder sempre la vista di quella divinità. Furono celebrati, con ogni accompagnamento di lusso o di solennità, i sacrifizj del Dio Elagabalo in un tempio magnifico, innalzato sul monte Palatino. I vini più squisiti, le vittime più rare, ed i più preziosi aromati si consumavano con profusione sull’ara. Intorno ad essa un coro di sirie donzelle intrecciava danze lascive al suono di barbari strumenti, mentre i più gravi personaggi dello Stato e dell’esercito, vestiti di lunghe toghe fenicie, vi esercitavano le più vili funzioni con uno zelo affettato, ed una indignazione secreta1. Il fanatico Imperatore volle deporre in quel tempio, come nel centro comune della religione, gli Ancili, il Palladio2, e tutti i sacri pegni del culto di Numa. Una moltitudine di divinità inferiori, diversamente situate, corteggiava la maestà del Dio di Emesa; ma la sua Corte era ancora imperfetta, finchè una compagna di un ordine superiore non fosse ammessa entro il suo

  1. Erodiano l. V p. 190.
  2. Egli violò il Santuario di Vesta, e ne involò una statua da lui creduta il Palladio; ma le Vestali si vantavano di avere con pia frode ingannato il sacrilego, presentandogli un falso simulacro della Dea: Stor. Aug. p. 103.