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Il delitto per altro non rimase impunito: nè le occupazioni, nè i piaceri, nè l’adulazione poterono sottrarre Caracalla ai rimorsi di una coscienza colpevole; ed egli confessò, tra le angoscie di un animo martoriato, che la conturbata sua fantasia gli presentava spesso le immagini sdegnose del padre e del fratello, tornati in vita a minacciarlo e rimproverarlo1. La cognizione del suo delitto avrebbe dovuto indurlo a persuadere gli uomini, colle virtù del suo regno, che quel sanguinoso misfatto era stato involontario effetto di una funesta necessità. Ma il pentimento di Caracalla lo portò solamente a togliere dal mondo tutto ciò che potea rammentargli la sua colpa, o risvegliare in lui la memoria dell’assassinato fratello. Ritornando dal Senato al palazzo, trovò la madre, che in compagnia di varie nobili matrone piangeva l’acerbo fato del suo figliuolo minore. Il geloso Imperatore la minacciò di pronta morte; e fu la sentenza eseguita contro Fadilla, ultima figlia superstite dell’Imperator Marco Aurelio; ed anche l’afflitta Giulia fu obbligata a por fine ai lamenti, a soffocare i sospiri, ed a ricevere l’assassino con sorriso di approvazione e di gioia. Si pretende che sotto il vago pretesto dell’amicizia di Geta, più di ventimila persone di ambidue i sessi incontrassero la morte. Le guardie di Geta, i liberti, i ministri de’ gravi affari, ed i compagni degli ozj e de’ piaceri, quelli che per lui aveano ottenuto cariche nelle armate o nelle province, e tutti i numerosi loro clienti furono inclusi in quella proscrizione, colla quale si cercò di esterminare chiunque avesse avuta la minima corrispondenza con Geta, o ne deplorasse la morte, o ricordasse ancora il suo nome2. Elvio

  1. Dione l. LXXVII p. 1307.
  2. Dione l. LXXVII p. 1290. Erodiano l. IV p. 150. Dione