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152 | storia della decadenza |
colte dell’Italia e delle province a coloro che vollero migliorarle, esentandole per dieci anni da qualunque imposizione1.
Una condotta così uniforme avea già assicurata a Pertinace la ricompensa più nobile per un Sovrano, la stima e l’amor del suo popolo. Quelli che si rammentavano le virtù di Marco Aurelio, con gran piacere contemplavano nel nuovo loro Imperatore i tratti di quel luminoso originale; e si lusingavano di godere lungamente la benigna influenza del suo governo. Un frettoloso zelo di riformare lo Stato corrotto, non secondato da quella prudenza, che gli anni e l’esperienza avrebbero dovuto dettare a Pertinace, divenne funesto a lui ed alla patria. La sua inopportuna virtù sollevò contro di esso quella turba servile, che trovava un interesse privato nei pubblici disordini, e preferiva il favor di un tiranno alla inesorabile egualità delle leggi2.
In mezzo alla comune letizia, il torvo e rabbioso aspetto dei Pretoriani disvelava il loro interno mal animo. Si erano a contraggenio sottomessi a Pertinace; temevano essi il rigore dell’antica disciplina, ch’egli si disponeva a ristabilire, e sospiravano la licenza del regno passato. Furono i loro dispiaceri segretamente fomentati da Leto loro Prefetto, che troppo tardi si accorse, che il nuovo Imperatore era disposto a ricompensare i servigi di un suddito, ma non a lasciarsi regolare da un Favorito. Il terzo giorno del suo regno i soldati presero un Senatore illustre, per condurlo al campo e rivestirlo della