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dell'impero romano cap. iii. | 107 |
Quando innalzò l’ingegnoso sistema dell’autorità imperiale, la sua moderazione era infinita da’ suoi timori. Desiderava allora d’ingannare il popolo con l’immagine della civile libertà, e gli eserciti con l’aspetto di un Governo civile.
La morte di Cesare gli stava sempre dinanzi agli occhi. Aveva, è vero, colmati i suoi aderenti di ricchezze e di onori, ma si ricordava, che gli amici più favoriti del suo zio erano stati nel numero dei congiurati. La fedeltà delle legioni potea difendere la sua autorità contro una ribellione scoperta, ma la loro vigilanza non poteva assicurare la sua persona dal pugnale di un risoluto repubblicano; ed i Romani, che veneravano la memoria di Bruto1, avrebbero applaudito a un imitatore di lui. Cesare avea provocato il suo destino più con l’ostentazione della sua potenza, che con la potenza medesima. Il Console o il Tribuno avrebbe potuto regnare in pace, ma il titolo di Re aveva armati i Romani contro la sua vita. Sapeva Augusto, che gli uomini si lasciano governare dai nomi, nè fu ingannato nell’aspettativa di credere, che il Senato ed il popolo avrebber sopportato la schiavitù, purchè fossero rispettosamente assicurati che tuttor godevano dell’antica lor libertà. Un Senato debole, ed un popolo avvilito si riposarono con piacere in questa dolce illusione, finchè la mantenne la virtù, o la prudenza dei successori d’Augusto. I congiurati contro Caligola, Nerone e Domiziano, animati dalla premura della propria sicurezza, e non dallo spirito di libertà, attaccarono la persona del tiranno, senza
- ↑ Dugent’anni dopo lo stabilimento della Monarchia, l’Imperatore Marco Aurelio vanta il carattere di Bruto come un perfetto modello della virtù romana.