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una moltitudine di aromati, che si consumavano nel culto religioso, e nelle pompe dei funerali.

La fatica ed il pericolo del viaggio venivano ricompensati da un profitto quasi incredibile; ma questo profitto si faceva sopra i sudditi Romani, e pochi individui si arricchivano a spese del pubblico. Come i nazionali dell’Arabia e dell’India si contentavano delle produzioni e manifatture del loro paese, così l’argento per parte dei Romani era il principale, se non il solo strumento di commercio. Il Senato giustamente si lagnava, che per femminili ornamenti si mandassero tra le nazioni straniere e nemiche1 le ricchezze dello Stato, che più non ritornavano. La perdita annuale si fa ascendere da uno scrittore esatto e critico a più di un milione e seicento mila zecchini2. Questo era lo stile di uno spirito mal contento, e sempre occupato dal malinconico aspetto di una vicina povertà. E ciò non ostante se si paragoni la proporzione tra l’oro e l’argento, quale era nel tempo di Plinio, e qual fu determinata nel regno di Costantino, si scoprirà in quel periodo un considerabilissimo aumento3. Non vi è la

    nostri tempi, Ormuz, e il Capo Comorino. Per quanto noi possiamo paragonare la Geografia antica colla moderna, Roma ricavava i suoi diamanti dalla miniera di Jumelpur nel Regno di Bengala; se ne trovauna descrizione nel tom. II. Viaggi di Tavernier pag. 281.

  1. Tacito Annali III 5 in un discorso di Tiberio.
  2. Plin. Stor. Nat. XII 18. In un altro luogo calcola la metà di questa somma; quingenties H. S. per l’India, senza comprender l’Arabia.
  3. La proporzione che era da uno a dieci, e dodici e mezzo salì a quattordici e due quinti per una legge di Costantino. Ved. le tavole di Arbuthnot sopra le monete antiche c. V.