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sidui di una pianeta rossa che gli era stata donata da una zia in occasione della sua prima messa.
— Buona sera, capellano! — disse la Guida riconoscendo don Remondo al riverbero di una lanterna che quegli teneva in mano. — C'è una stanza in questa casa... un letto... un pagliericcio su cui adagiare un ferito?
— Questa casa è un piccolo ospedale, rispose il prete — vi sono già ricoverati cinque dei nostri, dei quali uno è morto e due in grave pericolo... Pure c'è ancora posto per uno... Il letto non è molto pulito... ma in questi momenti non si bada...
— Sta bene... A momenti giungeranno i carri delle ambulanze... Vi è un capitano tedesco che soffre orribilmente e domanda di riposarsi il più presto possibile. C'è qualche medico qui dentro?
— Il chirurgo se n'è andato poco fa... Il paese è pieno di feriti... Quei maledetti artiglieri di Ampola hanno tirato sui nostri tutti i fulmini e le saette dei loro arsenali... Non importa... Lei sa bene, signor sergente, che abbiamo fatto un po' di pratica anche noi... In caso di urgenza scommetto che ci riuscirei a tagliare una gamba come il più abile chirurgo dell'armata.
Mentre il cappellano parlava di tal guisa, la Guida era scesa dal cavallo. Il corteo de' prigionieri e dei feriti cominciava a sfilare. La lanterna del cappellano mandava un sinistro riverbero sulle faccie abbronzite dei cacciatori tirolesi e degli artiglieri che proseguivano il loro triste viaggio.
Da ultimo, giunsero i carri delle ambulanze. La Guida accennò al cappellano di accostarsi col lume, e fatto arrestare il veicolo ove il capitano tedesco giaceva ferito quasi privo di sensi, coll'aiuto di un infermiere lo trasportò nella casuccia.
Entrati nella stanza terrena, il cappellano indicò l'unico letticciuolo che ivi era disponibile. Vi adagiarono il moribondo, e tutti insieme, il cappellano, la Guida e l'infermiere, si diedero con pietosa sollecitudine a medicargli le ferite.
Quella stanza umida e tetra pareva l'albergo dell