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III.

Or volgono sei anni, passando nelle vicinanze di X.... mi sovvenni dei due colleghi seminaristi; del primo, che io sapevo abitare in que' dintorni, chiesi novella alla padrona della piccola osteria ov'io mi era soffermato. — Il nostro curato! — sclamò la donna — oh! quello sì che è proprio un santo! peccato ch'egli sia così malaticcio! Egli andrà ritto ritto al paradiso, ma pel nostro paese sarà una grande sciagura. L'albergatrice proferì quelle parole con tal accento di compunzione che io ne fui tocco nel cuore. L'immagine dell'amico mi si ravvivò nel pensiero; rammentai i colloqui furtivi, le ingenue confidenze che fanciulli ci avevano collegati di tenera simpatia; nè potei risolvermi a lasciare il paesello senza prima rivedere colui ch'io aveva sconsigliato dal proseguire nella carriera ecclesiastica, e che ora la buona ostessa mi dipingeva quale un santo.

Coll'animo commosso mi avviai alla casa parrocchiale. «Di qual modo verrà accolta la mia visita? — pensavo io; — sarà egli turbato o contento nel rivedermi?» E ristetti esitante.

Superata la soglia, una fanticella mi introdusse nel giardino, e mi additò due preti seduti all'ombra del pergolato. Ambedue si levarono in piedi, e il loro saluto più cortese che amico, mi disse che nè l'uno nè l'altro si ricordavano d'avermi prima d'allora veduto. Ma, appena ebbi proferito il mio nome, il curato arrossì leggermente, mi stese la mano e mostrossi tutto lieto della mia visita; l'altro parve cercare affannosamente nel proprio cervello una rimembranza quasi smarrita.

— Non ti sovvieni ch'egli era con noi in seminario? — disse il curato al collega.

Lo smemorato spalancò gli occhi e la bocca; e, dopo un oh di sorpresa, mi fece tal festa da non potersi descrivere.

Perchè mai nel cappellano della contessa tanta esplo