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osso;... fatto è che io sudava per tutte le membra, e le mie mani erano divenute paralitiche. «A voi, bell'abatino, disse la contessa». Io, con moto convulso levai la mano, e nello spingere il cavallo ad un salto non permesso dalle regole, colle maniche del ruvido soprabito lanciai il tavolo e la scacchiera nel mezzo della sala. «Misericordia! — gridò la contessa — Io doveva prevederlo, che con quelle vostre manaccie mi avreste rovinato ogni cosa!... Tutti ad uno stampo questi preti!.... Vengono fuori dal seminario che paiono tanti bifolchi!....» Io mi sentii ferito nell'amor proprio; il sangue mi salì al cervello, fui sul punto di proferire un'insolenza; ma vedendo mio padre entrare nella sala, fuggii come un colpevole.
— Oh! davvero l'ingiuria della signora contessa fu grave, e credo che da quel giorno non sarai più tornato da lei.
— Tale era appunto la mia risoluzione; ma mio padre mi fece persuaso ch'io era ben sciocco a prender sul serio le facezie di una signora. «I preti devono sempre andar d'accordo co' signori, e sopratutto colle signore, — mi ripeteva mio padre — e quando questi invitano a pranzo, bisogna lasciarli dire... non irritarli... far di tutto perchè la tua compagnia riesca loro gradita; e se qualche volta si compiacciono di ridere alle tue spalle, lasciarli ridere, e fingere di non vedere... di non udire... Di tal modo sarai sempre ben accetto dai ricchi, ed otterrai da loro tutto che desideri».
— E rientrasti in casa della contessa?
— Oh! sì... certo..! mio padre lo volle.
— E giuocasti ancora agli scacchi?
— Non più, perchè non mi avvenne mai di trovarmi da solo a sola colla contessa; ma quand'io mi recai da lei per la visita di congedo: «Signor cappellano in erba, — mi disse ridendo, — vi raccomandiamo di studiar bene il vostro latinorum; poi, se avremo buone informazioni sul vostro conto, se infine saremo contenti di voi, penseremo nelle prossime vacanze a compir la vostra educazione civile, come abbiam già fatto col vostro antecessore il fu D. Casimiro e con questi