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di mangiare; io cerco intrattenere il Lanfranconi con una lunga sequela di aneddoti politici, fino all'ora del dessert.
La pendola della sala segna le sette ore. Il momento è solenne e decisivo. Il signor Lanfranconi, dietro mio cenno, espone al Nebbia ed al Trigambi il suo disegno.
I due colleghi sembrano esitare. Sì l'uno come l'altro mostrano poca fiducia nel giudice innanzi a cui debbono perorare la loro causa. Io mi faccio ad incoraggiarli con buone parole e con un sorriso misto di ingenuità e di cortesia. Alla fine l'avvocato Nebbia incoraggiato da una furtiva occhiata di Ifigenia, che si giova d'un tale artificio per accelerare la catastrofe, prende a parlare di tal guisa:
— Se all'onorevole signor Lanfranconi od alla amabile di lei figliuola spettasse il giudicarmi, crederei inutile e forse inopportuno io accennare quanto io m'abbia fatto a pro della patria comune, di questa carissima e santissima Italia, cui da più anni ho consacrate tutte le forze dello ingegno. Pure, trattandosi di dovermi subordinare al giudizio di chi non mi conosce, in vista del sommo guiderdone a cui aspiro, non per vanità o per boria, dirò brievemente la ragione mia. Mentre Italia gemeva sotto l'oppressione dei suoi tiranni, mentre il sospiro, la parola, perfino l'aspirazione segreta ad un miglior avvenire erano delitti, io dettai sul Chiaro-oscuro venticinque articoli, cui senza dubbio l'Italia va debitrice dell'attuale suo risorgimento. Questo è il maggiore de' miei vanti, nè io lo rammenterei, se una tale contribuzione forzata alla mia naturale modestia non fosse imposta da un affetto gentile.
— Sta bene, — rispondo io. — E dopo avere scritti i venticinque articoli, al momento in cui l'Italia agitata dalla vostra efficace eloquenza si armava per combattere i duecentomila stranieri, che non eran fuggiti dinanzi alle vostre ciarle... come vi comportaste voi?
— Io spinsi tutti i miei conoscenti ed amici a prendere le armi.
— E voi li seguiste... senza dubbio sul campo di battaglia...