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voce rauca, le parole terribili, il pugnale sguainato, tutto gli fece credere che quel singolare personaggio fosse l'esecutore della giustizia incaricato di trucidarlo...!
— Pietà di uno sventurato! — gridò il nipote di don Dionigi coll'accento della disperazione, gettandosi ai piedi della donna e abbracciandone le gonnelle con tremito convulso.
Ortensia Rancati, in quel grido, in quell'impetuoso movimento, in quel tremito credette riconoscere un trasporto di passione. Teodoro Dolci, l'eroe del due gennaio, il martire di Robbiatello, avrebbe compreso la sublime devozione della donna che gli offre il proprio cuore e una rendita di venti mila franchi all'anno? Questo slancio eloquente di riconoscenza ed affetto non è forse la miglior risposta alla lettera di Ortensia?...
Trascorsero dieci minuti di sublime silenzio. Teodoro, più morto che vivo, la testa sprofondata nei ricchi drappi, recitava sotto voce l'atto di contrizione, invocando in suo soccorso tutti i santi del paradiso.
Ortensia, ritta, immobile, collo sguardo converso alla soffitta, d'una mano rimetteva il pugnale nella guaina, mentre coll'altra carezzava lievemente i capelli del genuflesso. Non mai la paura e l'amore si trovarono più strettamente abbracciati.
Ortensia fu la prima a rompere il silenzio.
— Sorgi, o figliuolo della rivoluzione! il tuo posto dovrebb'essere sugli altari, e a me spetterebbe il prostrarmi in adorazione a te dinanzi.
— Per pietà! non mi fate soffrire, — ripeteva Teodoro con voce soffocata. — Non prolungatemi l'agonia... Uccidetemi d'un solo colpo...
— Povero giovane! Quanta sensibilità! quanta tenerezza! Oh! io doveva aspettarmelo...! Tutti così, questi eroi! Sul campo di battaglia feroci come leoni; innanzi ad una donna titubanti e paurosi come scolaretti. Via! perchè tremi, o giovanotto? Solleva la testa, guardami in volto... Io non appartengo alla sfera di quelle donne volgari, il cui amore corrompe ed infiacchisce. L'amore che io ti porto raddoppie