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— Mi abbisogna una camera per questa notte, — dice egli al padrone; — ma prima di coricarmi vorrei trovare una persona fidata che mi accompagnasse in contrada Sant'Antonio, alla casa N. 1241. Io sono don Dionigi Quaglia di Capizzone. —

Non appena don Dionigi ha proferito il proprio nome, l'albergatore afferra il prete pel braccio, lo trascina nel cortiletto, e spingendolo fin presso ai gradini della cantina: — Imprudente! — gli dice; — ella si è tradito da sè medesimo! Dopo il fatto di piazza Fontana, dopo la famosa istoria di Teodoro Dolci, il mio albergo è continuamente assediato dalle spie. In questo momento ce n'erano due là dentro... e famose! Se la polizia giungesse a scoprire il nascondiglio del signor Dolci, io son certo che lo farebbe appiccare senza chiedere il permesso a Vienna. —

Don Dionigi, ritto ed immobile presso la muraglia, rassomiglia ad uno sparviero inchiodato. Il naso e la punta del cappello rivolti al firmamento esprimono la desolazione del poveretto. «Oimè! — sclama egli, — Iddio mi ha dunque tolto il bene dell'intelletto! Io non so più in che mondo mi sia...»

Frattanto gli zelanti patriotti, che stavano pranzando nella sala terrena, vengono anch'essi nel cortile per istringere la mano allo zio di Teodoro e offrirgli servigio.

— Bisogna far presto! Le due soffie sono già in cammino per recare l'ambasciata al conte Bolza. Sarà bene prevenire il signor Teodoro e farlo trasportare in altra casa... Presto! non c'è un minuto da perdere. —

Così parlando, due giovanotti si impadroniscono del prete e lo traggono fuori dell'osteria, dirigendosi verso la contrada di Sant'Antonio. Don Dionigi si lascia condurre come un automa; e mentre i due sconosciuti gli intronano l'orecchio di complimenti e di esortazioni patriotiche, il buon prete invoca il soccorso della Provvidenza recitando il Veni creator spiritus.

Eccoci nella contrada di Sant'Antonio. Giunti alla casa N. 1241, la piccola comitiva si arresta, e i due sconosciuti si accommiatano da don Dionig