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struzione di Roma, due foggie di preti, il bianco ed il nero, simboleggiarono distintamente la chiesa novella e la antica, le superstizioni del passato e la fede dell’avvenire.

I preti della chiesa riformata vestirono la tunica bianca come gli antichi leviti. I settarii del non possumus mantennero il loro abito nero, fatto più sudicio e più lugubre.

Poco ci occuperemo degli avanzi sdrusciti della Curia romana, sopravvissuti all’ultimo papa di Carpentras, all’ultimo Lamoricière della Vandea. Nell’anno 1977 le statistiche del Monde e dell’Union si gloriavano di poterne contare venticinque in tutta Europa.

Il prete riformato, il prete bianco, era l’incarnazione più pura del progresso del secolo. Per lui l’Europa si era unificata anche nel pensiero religioso. Il Cristianesimo contava sulla terra settecento milioni di credenti.

Un vangelo che si riassume nel sublime precetto: non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi, perdonate, amate, non poteva tradursi nell’osservanza generale che in un’epoca molto civile e illuminata. I secoli ignoranti inneggiarono a Cristo senza comprenderlo. La superstizione, l’idolatria, il fanatismo tennero luogo del culto morale. Era tempo che il cristianesimo riprendesse la sua alta missione libera e umanitaria. Era tempo che una convinzione illuminata si sostituisse al cieco entusiasmo, per proclamare questa verità incontestabile — che un Dio sapiente e benefico non potrebbe dare alla umanità un codice più santo del vangelo.

Il prete bianco divenne apostolo, fratello, consolatore della umanità.

I templi, consacrati esclusivamente alla predicazione ed alle assemblee, rinunciarono alle pompe idolatre. Le cerimonie del culto si celebrarono a porte chiuse. I sa-