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«Essi dicono: il padrone è ricco, e noi siamo poveretti — egli è il nostro benefattore — egli ci mantiene, ci dà la polenta — lavoriamo per lui! — è nostro dovere! senza di lui come potremmo vivere?
«Così gli idioti contadini, che non sanno leggere, nè ragionare. Vedete qual logica balorda! Come si illudono grossolanamente i poveretti sulla legittimità dei vostri diritti di proprietario, e sulla necessità del loro servaggio! Sono ignoranti, sono zotici i vostri paesani!!!
«Via, signor sindaco!... bisogna soccorrere all’idiotismo di questi infelici. Affrettiamoci ad educarli! Poniamo loro in mano l’abbecedario, poi la grammatica, poi l’istradamento al comporre, la prosodia, se volete — qualche libro di amena letteratura — e da ultimo, abboniamoli ai giornali politici!
«Tutto sta che i maestri ci si mettano di zelo; e in meno di cinque o sei anni, i vostri contadini, signor sindaco, ne sapranno quanto voi, o per lo meno quanto il vostro segretario.
«Ecco là un’assemblea di scienziati, un areopago di filosofi... Via! battete le mani, signor sindaco presidente! Il grande miracolo è compiuto! I vostri villani erano bruti ed ora sono diventati uomini — erano schiavi, ed hanno infranto le catene — nuotavano nelle tenebre, ed oggi aspirano alla luce. Tanto ciò è vero che essi hanno gettata la vanga e la gerla, e non vogliono più saperne di fecondare coi loro sudori la gleba del tiranno.
«E sapete cosa è la gleba, signor sindaco? — è il vostro campo. Sapete chi è il tiranno? — Il tiranno siete voi. Consolatevi! questa scoperta è dovuta al vostro sistema di educazione universale. Il risultato poteva esser più pronto e più soddisfacente?
«Ma io ho forse abordato con soverchia leggerezza una quistione molto seria, che racchiude il germe di san-