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tripudii di un amore ricambiato. Ed ora l’appassionata Fidelia veniva a pregustare le gioie benedette, a inebbriarsi nei sogni prediletti dell’avvenire.

Era una piccola festa di fanciulle. Le amiche della fidanzata, giusta il costume dell’epoca, avevano portato il loro dono di nozze. Quei doni misteriosi, di cui ciascuna guardava scrupolosamente il segreto, dovevano riuscire altrettante sorprese alla giovane sposa, il giorno in cui ella avrebbe passeggiato per la prima volta a braccio del consorte negli intimi viali del giardino.

E noi rispetteremo il segreto di quelle fantastiche fanciulle; noi ci guarderemo dall’esplorare col nostro occhio profano gl’ingegnosi stratagemmi dell’amicizia, i gentili trovati di quelle anime vergini di donna.

Fidelia non aveva voluto staccarsi dalla sua sorella di amore. Ella appoggiava il braccio a quello di Speranza, e senza divagare dal grande viale che metteva al palazzo, camminava a passo lento in quella direzione, e parlava all’amica con angelico abbandono:

— Dieci giorni ancora!... sai che sono lunghi... dieci giorni!

— Cosa sarebbe l’amore, cosa sarebbe la gioia — esclamava Speranza con accento ispirato — senza i giorni del desiderio e della aspettazione! Io credo che Viola avesse perfettamente ragione, quand’ella, nel circolo, ha dato dell’amore quella sublime definizione così poco apprezzata dalle sorelle. L’amore è desiderio.

— L’amore è perdono! — mormorò Fidelia con un sospiro.

E questo concetto era per lei una soave reminiscenza, queste parole erano una melodia sommessa che le inebbriava tutti i sensi.

Giunsero al palazzo. Le porte erano abbassate, e la sala terrena sfarzosamente addobbata splendeva di fanta-