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nivano ogni sera ad occupare nella sala del signore tre lati di un tavolo coperto di ricco tappeto.
Nel centro di quel tavolo, quegli spiriti eterogenei, intolleranti, irreconciliabili, avevano trovato un punto di coincidenza simpatica. Era un’immane bottiglia, un’anfora imponente e generosa, il cui sugo inesauribile produceva nei tre antagonisti il doppio effetto di rifiammare gli ardori politici e di ammorbidire le gole. Il curato, il sindaco e il farmacista pigliavano un gusto matto a bisticciarsi e a contraddirsi in quel tiepido ambiente dove la più gustosa delle bevande era sempre là per estinguere ogni ardore di sete e di entusiasmo.
Essi amavano il buon vino con esemplare concordia; e siccome il buon vino non corre le bettole e le cantine del volgo, così la loro ripulsione politica si era mutata in attrazione pel fascino di un barolo squisito.
Il curato si scusava: — Forse che alla chiesa non conveniamo tutti, uomini dabbene e peccatori, papisti e scomunicati, intorno all’altare del Dio uno e vero?
E il farmacista rifletteva: — Dinanzi alla malattia non conosco avversarii politici; io prodigo i miei medicinali anche ai vili moderati che vorrei avvelenare di arsenico. La malattia e la sete stanno al di sopra di ogni rancore di partito.
Il sindaco, nella sua qualità di moderato, credeva dar prova di sublime tolleranza, trincando coi due partiti estremi.
Di qual modo si erano introdotti nella casa dell’eccentrico signore tre individui di opinioni così avverse?
Il signore li aveva conquistati nei primi tempi del suo soggiorno in paese. Ciascuno alla sua volta, il curato, il sindaco e il farmacista, avevano ricevuto dal forestiere una carta di visita ed un autografo accompagnato da un biglietto a stampa di effetto miracoloso.