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periosa volontà dei più temerari. Immaginate la meraviglia dei circostanti in vedere lo scienziato distendere sbadatamente le gambe sui cuscini della pelle contratta, e solleticare colla punta dello stivaletto gli irti mustacchi della belva!

Se non che, a scemare l’impressione terribile di quella scena, un altro fatto meno sorprendente, perché constatato da altre esperienze, ma sempre interessante e giocondo, distrasse l’attenzione dei curiosi. Un centinaio di augelletti d’ogni specie e d’ogni colore aveano invasa la sala, e svolazzavano dai capitelli alle cornici, dai ventilatori ai lampadari, cinguettando festosamente. Fourrier levò lo sguardo, e sorrise coll’espressione di chi risponde ad un cortese saluto con animo profondamente addolorato. Poi trasse dalla bisaccia una elegante scatoletta ripiena di semi odorosi — e gli augelletti a discendere tosto, beccare il loro granello, e di nuovo sparpagliarsi nelle regioni più elevate.

Sulla fronte dello scienziato era una nube di tristezza. Raspail se ne avvide, gli stese la mano, e coll’affetto dello sguardo gli chiese il segreto de’ suoi dolori.

— Il mio dolore non è più un segreto pei miei compagni di viaggio — prese a dire Fourrier coll’accento della più viva commozione, e accennava a Virey e a Michelet. — Pure io ripeterò la confessione, perocché la mia anima ha bisogno di rivelarsi.

Nella sala si fece un silenzio solenne. Gli augelli ristettero e cessarono dal canto.

— Colleghi, amici, fratelli — riprese Fourrier — la scienza genera la superbia, e la superbia genera l’errore. Questa antica sentenza oggi mi ricorre al pensiero nella sua verità più terribile. Seguendo le orme d’un mio illustre antenato, io mi era prefisso di concorrere alla rigenerazione della umana famiglia perfezionando