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CANTO DUODECIMO. | 59 |
LXXXIII.
Asciutte le mirate: or corra, dove
Nega d’andare il pianto, il sangue mio.
Quì tronca le parole; e come il move
660Suo disperato di morir desio,
Squarcia le fasce e le ferite; e piove
Dalle sue piaghe esacerbate un rio.
E s’uccidea; ma quella doglia acerba,
664Col trarlo di se stesso, in vita il serba.
LXXXIV.
Posto è sul letto, e l’anima fugace
Fu richiamata agli odiosi uficj.
Ma la garrula fama omai non tace
668L’aspre sue angoscie e i suoi casi infelici.
Vi tragge il pio Goffredo, e la verace
Turba v’accorre de’ più degni amici.
Ma nè grave ammonir, nè parlar dolce
672L’ostinato dell’alma affanno molce.
LXXXV.
Qual’in membro gentil piaga mortale
Tocca s’inaspra, e in lei cresce il dolore;
Tal da i dolci conforti, in sì gran male,
676Più inacerbisce medicato il core.
Ma il venerabil Piero, a cui ne cale
Come d’agnella inferma a buon pastore,
Con parole gravissime ripiglia
680Il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia.