Pagina:Gerusalemme liberata II.djvu/54

40 LA GERUSALEMME

XXVI.


     Piangendo, a me ti porse, e mi commise
Ch’io lontana a nutrir ti conducessi.
Chi può dire il suo affanno, e in quante guise
204Lagnossi, e raddoppiò gli ultimi amplessi?
Bagnò i bacj di pianto, e fur divise
Le sue querele da i singulti spessi.
Levò alfin gli occhj, e disse: O Dio, che scerni
208L’opre più occulte, e nel mio cor t’interni:

XXVII.


     Se immaculato è questo cor, se intatte
Son queste membra e ’l marital mio letto;
Per me non prego, chè mille altre ho fatte
212Malvagità; son vile al tuo cospetto:
Salva il parto innocente, al quale il latte
Nega la madre del materno petto.
Viva, e sol d’onestate a me somigli:
216L’esempio di fortuna altronde pigli.

XXVIII.


     Tu, celeste guerrier, che la donzella
Togliesti del serpente agli empj morsi;
S’accesi ne’ tuo’ altari umil facella,
220S’auro o incenso odorato unqua ti porsi;
Tu per lei prega sì, che fida ancella
Possa in ogni fortuna a te raccorsi.
Quì tacque, e ’l cor le si rinchiuse e strinse,
224E di pallida morte si dipinse.