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CANTO VIGESIMO. | 307 |
LIII.
Gli Arabi allora, e gli Etiópi, e i Mori,
Che l’estremo tenean del lato manco,
Gíansi spiegando e distendendo in fuori:
420Indi giravan de’ nemici al fianco.
Ed omai sagittarj e frombatori
Molestavan da lunge il popol Franco;
Quando Rinaldo e ’l suo drappel si mosse:
424E parve che tremoto, e tuono fosse.
LIV.
Assimiro di Meroe, infra l’adusto
Stuol d’Etiopia, era il primier de’ forti.
Rinaldo il colse ove s’annoda al busto
428Il nero collo, e ’l fè cader tra’ morti.
Poich’eccitò della vittoria il gusto
L’appetito del sangue e delle morti
Nel fero vincitore, egli fè cose
432Incredibili, orrende, e mostruose.
LV.
Diè più morti che colpi; e pur frequente
De’ suoi gran colpi la tempesta cade.
Qual tre lingue vibrar sembra il serpente,
436Chè la prestezza d’una il persuade;
Tal credea lui la sbigottita gente
Con la rapida man girar tre spade.
L’occhio al moto deluso il falso crede,
440E ’l terrore a que’ mostri accresce fede.