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CANTO DECIMONONO. | 249 |
XVII.
Alfin lasciò la spada alla catena
Pendente, e sotto al buon Latin si spinse.
Fè l’istesso Tancredi, e con gran lena
132L’un calcò l’altro, e l’un l’altro ricinse.
Nè con più forza dall’adusta arena
Sospese Alcide il gran gigante, e strinse,
Di quella onde facean tenaci nodi
136Le nerborute braccia in varj modi.
XVIII.
Tai fur gli avvolgimenti e tai le scosse,
Ch’ambi in un tempo il suol presser col fianco.
Argante, od arte o sua ventura fosse,
140Sovra ha il braccio migliore, e sotto il manco.
Ma la man ch’è più atta alle percosse,
Sottogiace impedita al guerrier Franco,
Ond’ei, che ’l suo svantaggio e ’l rischio vede,
144Si sviluppa dall’altro, e salta in piede.
XIX.
Sorge più tardi, e un gran fendente, in prima
Che sorto ei sia, vien sopra al Saracino.
Ma come all’Euro la frondosa cima
148Piega, e in un tempo la solleva il pino,
Così lui sua virtute alza e sublima,
Quando ei ne gía per ricader più chino.
Or ricomincian quì colpi a vicenda.
152La pugna ha manco d’arte, ed è più orrenda.