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CANTO DECIMOTTAVO. 227

LIX.


     Quanta e qual sia quell’oste, e ciò che pensi
Il Duce loro, a voi ridir prometto.
Vantomi in lui scoprir gl’intimi sensi,
468E i secreti pensier trargli del petto.
Così parla Vafrino, e non trattiensi;
Ma cangia in lungo manto il suo farsetto:
E mostra fa del nudo collo: e prende
472D’intorno al capo attorcigliate bende.

LX.


     La faretra s’adatta, e l’arco Siro:
E barbarico sembra ogni suo gesto.
Stupiron quei che favellar l’udiro,
476Ed in diverse lingue esser sì presto,
Ch’Egizio in Menfi, o pur Fenice in Tiro
L’avria creduto e quel popolo e questo.
Egli sen va sovra un destrier ch’appena
480Segna nel corso la più molle arena.

LXI.


     Ma i Franchi, pria che ’l terzo dì sia giunto,
Appianaron le vie scoscese e rotte:
E finir gl’instromenti anco in quel punto,
484Chè non fur le fatiche unqua interrotte;
Anzi all’opre de’ giorni avean congiunto,
Togliendola al riposo, anco la notte.
Nè cosa è più che ritardar gli possa
488Dal far l’estremo omai d’ogni lor possa.