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CANTO DECIMO. | 327 |
LXV.
Ella d’un parlar dolce, e d’un bel riso
Temprava altrui cibo mortale e rio.
Or, mentre ancor ciascuno a mensa assiso
516Beve con lungo incendio un lungo oblio,
Sorse, e disse: or quì riedo; e con un viso
Ritornò poi non sì tranquillo e pio.
Con una man picciola verga scuote:
520Tien l’altra un libro, e legge in basse note.
LXVI.
Legge la Maga: ed io pensiero e voglia
Sento mutar, mutar vita ed albergo.
(Strana virtù!) novo piacer m’invoglia:
524Salto nell’acqua, e mi vi tuffo e immergo.
Non so come ogni gamba entro s’accoglia,
Come l’un braccio e l’altro entri nel tergo.
M’accorcio, e stringo: e su la pelle cresce
528Squammoso il cuojo, e d’uom son fatto un pesce.
LXVII.
Così ciascun degli altri anco fu volto,
E guizzò meco in quel vivace argento.
Quale allor mi foss’io, come di stolto
532Vano e torbido sogno, or men rammento.
Piacquele alfin tornarci il proprio volto:
Ma tra la meraviglia e lo spavento
Muti eravam; quando, turbata in vista,
536In tal guisa minaccia e ne contrista: