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CANTO DECIMO. | 317 |
XXXV.
Dalla concava nube il Turco fero,
Non veduto, rimira e spia d’intorno;
E ode il Re frattanto, il qual primiero
276Incomincia così dal seggio adorno:
Veramente, o miei fidi, al nostro impero
Fu il trapassato assai dannoso giorno:
E caduti d’altissima speranza,
280Sol l’ajuto d’Egitto omai n’avanza.
XXXVI.
Ma ben vedete voi quanto la speme
Lontana sia da sì vicin periglio.
Dunque voi tutti ho quì raccolti insieme,
284Perchè ognun porti in mezzo il suo consiglio.
Quì tace; e quasi in bosco aura che freme,
Suona d’intorno un picciolo bisbiglio.
Ma con la faccia baldanzosa e lieta
288Sorgendo Argante il mormorare accheta.
XXXVII.
O magnanimo Re (fu la risposta
Del cavaliero indomito, e feroce)
Perchè ci tenti? e cosa a nullo ascosta
292Chiedi, ch’uopo non ha di nostra voce?
Pur dirò; sia la speme in noi sol posta:
E s’egli è ver che nulla a virtù nuoce,
Di questa armiamci: a lei chiediamo aita:
296Nè più, ch’ella si voglia, amiam la vita.