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CANTO NONO. | 293 |
LXV.
Là incrudelite, là sovra i nocenti
Tutte adoprate pur le vostre posse
Fra i gridi eterni, e lo stridor de’ denti,
516E ’l suon del ferro, e le catene scosse.
Disse: e quei ch’egli vide al partir lenti,
Con la lancia fatal pinse, e percosse.
Essi, gemendo, abbandonar le belle
520Regioni della luce, e l’auree stelle.
LXVI.
E dispiegar verso gli abissi il volo
Ad inasprir ne’ rei l’usate doglie.
Non passa il mar d’augei sì grande stuolo,
524Quando ai Soli più tepidi s’accoglie:
Nè tante vede mai l’autunno al suolo
Cader, co’ primi freddi, aride foglie.
Liberato da lor, quella sì negra
528Faccia depone il mondo, e sì rallegra.
LXVII.
Ma non perciò nel disdegnoso petto
D’Argante vien l’ardire o ’l furor manco;
Benchè suo foco in lui non spiri Aletto,
532Nè flagello infernal gli sferzi il fianco.
Rota il ferro crudel ove è più stretto
E più calcato insieme il popol Franco.
Miete i vili, e i potenti: e i più sublimi
536E più superbi capi adegua agl’imi.