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CANTO SESTO. | 163 |
XI.
Tosto fia che quì giunga: or se frattanto
Son le nostre castella oppresse e serve,
Non ce ne caglia, purchè ’l regal manto
84E la mia nobil reggia io mi conserve.
Tu l’ardimento, e questo ardore alquanto
Tempra, per Dio, che ’n te soverchio ferve:
Ed opportuna la stagione aspetta
88Alla tua gloria, ed alla mia vendetta.
XII.
Forte sdegnossi il Saracino audace,
Ch’era di Solimano emulo antico;
Sì amaramente ora d’udir gli spiace
92Che tanto sen prometta il Rege amico.
A tuo senno, risponde, e guerra e pace
Farai, Signor, nulla di ciò più dico.
S’indugi pure, e Soliman s’attenda;
96Ei, che perdè il suo regno, il tuo difenda.
XIII.
Vengane a te, quasi celeste messo,
Liberator del popolo Pagano:
Ch’io, quanto a me, bastar credo a me stesso,
100E sol vuò libertà da questa mano.
Or, nel riposo altrui, siami concesso
Ch’io ne discenda a guerreggiar nel piano:
Privato cavalier, non tuo campione,
104Verrò co’ Franchi a singolar tenzone.