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146 | LA GERUSALEMME |
LVI.
A sua ritenzion libero vegna;
Questo ch’io posso, ai merti suoi consento.
Ma s’egli sta ritroso, e se ne sdegna,
444(Conosco quel suo indomito ardimento)
Tu di condurlo, e provveder t’ingegna
Ch’ei non isforzi uom mansueto e lento
Ad esser delle leggi, e dell’impero
448Vendicator, quanto è ragion, severo.
LVII.
Così disse egli; e Guelfo a lui rispose:
Anima non potea, d’infamia schiva,
Voci sentir di scorno ingiuriose,
452E non farne repulsa ove l’udiva.
E se l’oltraggiatore a morte ei pose,
Chi è che meta a giust’ira prescriva?
Chi conta i colpi, o la dovuta offesa,
456Mentre arde la tenzon, misura e pesa?
LVIII.
Ma quel che chiedi tu, ch’al tuo soprano
Arbitrio il garzon venga a sottoporse,
Duolmi ch’esser non può; ch’egli lontano
460Dall’oste immantinente il passo torse.
Ben m’offro io di provar con questa mano
A lui, ch’a torto in falsa accusa il morse,
O s’altri v’è di sì maligno dente,
464Ch’ei punì l’onta ingiusta giustamente.