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CANTO QUARTO. | 121 |
LXXVII.
Questo finto dolor da molti elíce
Lagrime vere, e i cor più duri spetra.
Ciascun con lei s’affligge, e fra se dice:
612Se mercè da Goffredo or non impetra,
Ben fu rabbiosa tigre a lui nutrice,
E ’l produsse in aspr’alpe orrida pietra,
O l’onda che nel mar si frange e spuma:
616Crudel, che tal beltà turba e consuma.
LXXVIII.
Ma il giovinetto Eustazio, in cui la face
Di pietade e d’amore è più fervente,
Mentre bisbiglia ciascun altro, e tace,
620Si tragge avanti, e parla audacemente:
O germano e Signor, troppo tenace
Del suo primo proposto è la tua mente;
Se al consenso comun che brama e prega,
624Arrendevole alquanto or non si piega.
LXXIX.
Non dico io già, che i Principi, che a cura
Si stanno quì de’ popoli soggetti,
Torcano il piè dalle oppugnate mura,
628E sian gli uficj lor da lor negletti:
Ma fra noi che guerrier siam di ventura,
Senza alcun proprio peso, e meno astretti
Alle leggi degli altri, elegger diece
632Difensori del giusto a te ben lece.