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CANTO QUARTO. | 117 |
LXXI.
Nulla speme più resta: invan mi doglio:
Non han più forza in uman petto i preghi.
Forse lece sperar che ’l mio cordoglio,
564Che te non mosse, il reo Tiranno pieghi?
Nè già te d’inclemenza accusar voglio,
Perchè ’l picciol soccorso a me si neghi;
Ma il Cielo accuso, onde il mio mal discende,
568Che ’n te pietade innesorabil rende.
LXXII.
Non tu, Signor, nè tua bontade è tale;
Ma ’l mio destino è che mi nega aita:
Crudo destino, empio destin fatale,
572Uccidi omai questa odiosa vita.
L’avermi priva, oimè, fu picciol male
De’ dolci padri in loro età fiorita;
Se non mi vedi ancor, del regno priva,
576Qual vittima al coltello andar cattiva.
LXXIII.
Chè poichè legge d’onestate, e zelo
Non vuol che quì sì lungamente indugi,
A cui ricorro intanto? ove mi celo?
580O quai contra il Tiranno avrò rifugj?
Nessun loco sì chiuso è sotto il Cielo,
Ch’a lor non s’apra: or perchè tanti indugj?
Veggio la morte, e se ’l fuggirla è vano,
584Incontro a lei n’andrò con questa mano.