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116 | LA GERUSALEMME |
LXVIII.
Se in servigio di Dio, ch’a ciò n’elesse,
Non s’impiegasser quì le nostre spade,
Ben tua speme fondar potresti in esse,
540E soccorso trovar, non che pietade:
Ma se queste sue gregge, e queste oppresse
Mura non torniam prima in libertade,
Giusto non è, con iscemar le genti,
544Che di nostra vittoria il corso allenti.
LXIX.
Ben ti prometto, e tu per nobil pegno
Mia fe ne prendi, e vivi in lei sicura;
Che se mai sottrarremo al giogo indegno
548Queste sacre, e dal Ciel dilette mura;
Di ritornarti al tuo perduto regno,
Come pietà n’esorta, avrem poi cura.
Or mi farebbe la pietà men pio,
552S’anzi il suo dritto io non rendessi a Dio.
LXX.
A quel parlar chinò la donna, e fisse
Le luci a terra, e stette immota alquanto:
Poi sollevolle rugiadose, e disse,
556Accompagnando i flebil’atti al pianto:
Misera! ed a qual’altra il Ciel prescrisse
Vita mai grave, ed immutabil tanto?
Chè si cangia in altrui mente e natura,
560Pria che si cangi in me sorte sì dura.