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110 | LA GERUSALEMME |
L.
Ma che giovava, oimè, che del periglio
Vicino omai fosse presago il core;
Se irresoluta in ritrovar consiglio
396La mia tenera età rendea il timore?
Prender fuggendo volontario esiglio,
E ignuda uscir del patrio regno fuore
Grave era sì, ch’io fea minore stima
400Di chiuder gli occhj, ove gli apersi in prima.
LI.
Temea, lassa, la morte, e non avea
(Chi ’l crederia?) poi di fuggirla ardire;
E scoprir la mia tema anco temea,
404Per non affrettar l’ore al mio morire.
Così inquieta e torbida traea
La vita in un continuo martíre;
Qual uom ch’aspetti, che sul collo ignudo
408Ad or ad or gli caggia il ferro crudo.
LII.
In tal mio stato, o fosse amica sorte,
O ch’a peggio mi serbi il mio destino,
Un de’ ministri della regia corte,
412Che ’l Re mio padre s’allevò bambino,
Mi scoperse che ’l tempo alla mia morte,
Dal Tiranno prescritto, era vicino;
E ch’egli a quel crudele avea promesso
416Di porgermi il velen quel giorno stesso.