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82 LA GERUSALEMME

XLIV.


     Nè giova ad Algazzarre il fino usbergo,
Ned a Corban robusto il forte elmetto;
Chè in guisa lor ferì la nuca e ’l tergo,
348Che ne passò la piaga al viso, al petto:
E per sua mano ancor del dolce albergo
L’alma uscì d’Amuratte, e di Meemetto,
E del crudo Almansor; nè ’l gran Circasso
352Può sicuro da lui mover il passo.

XLV.


     Freme in se stesso Argante, e pur talvolta
Si ferma e volge, e poi cede pur anco.
Alfin così improvviso a lui si volta,
356E di tanto rovescio il coglie al fianco,
Che dentro il ferro vi s’immerge, e tolta
È dal colpo la vita al Duce Franco.
Cade, e gli occhj ch’appena aprir si ponno,
360Dura quiete preme, e ferreo sonno.

XLVI.


     Gli aprì tre volte, e i dolci rai del Cielo
Cercò fruire, e sovra un braccio alzarsi:
E tre volte ricadde, e fosco velo
364Gli occhj adombrò, che stanchi alfin serrarsi.
Si dissolvono i membri, e ’l mortal gelo
Irrigiditi, e di sudor gli ha sparsi.
Sovra il corpo già morto il fero Argante
368Punto non bada, e via trascorre avante.